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QUINTET Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 28 febbraio 1980
 
di Robert Altman, con Paul Newman, Bibi Andersson Vittorio Gassman, Fernando Rey, Brigitte Fossey (Stati Uniti, 1978)
 
Con QUINTET Robert Altman dovrebbe mantenersi nella medesima prospettiva di uno dei suoi più grandi film, TRE DONNE. La fusione, cioè, dei due temi che guidano la sua visione artistica: uno sguardo sulla nostra civiltà decadente, e un viaggio all'interno delle psicologie degli individui che popolano questa civiltà.

In QUINTET un cacciatore di foche (Paul Newman) ritorna dopo anni di assenza alla propria città: la trova ormai agli estremi della sopravvivenza, in piena epoca glaciale. Come al termine di TRE DONNE, l'umanità è ormai agli sgoccioli. Le donne sono private della possibilità di procreare, gli uomini relegati in un ruolo definitivamente comprimario. Qui giocano: "Quintet" è infatti il nome di un gioco di dadi, d'azzardo, al quale questa umanità senza calore, senza amore, senza avvenire ha affidato la propria ragione d'essere. Il gioco ha preso il posto della religione, è diventato una metafora della vita. È un gioco che conduce alla morte: il cacciatore ignaro, mitico personaggio proveniente dal nulla e destinato a scomparire nel nulla (un western, una favola, ha detto Altman), cerca di infrangerne le regole, per comprenderne il significato. In cosa consiste la vittoria, in un universo dal quale ogni speranza, ogni bene è scomparso da tempo? Soltanto nel fatto di essere ancora in vita.

Ci sono due elementi, nel film, che hanno evidentemente sedotto Altman, un regista che e sempre partito da esigenze stilistiche, prima che ideologiche o "contenutistiche": la struttura astratta, kafkiana della città sommersa dal ghiaccio (si tratta dei resti dell'Esposizione universale di Montreal del 1967) ed il fascino matematico del numero che è alla base del gioco d'azzardo del film, il numero cinque. Cinque sono i personaggi, cinque i settori della città che visitiamo, cinque i lati d(li cappelli, rinascimentali portati dai personaggi, e via dicendo. Su questi due elementi stilistici il regista ha costruito la sua favola avveniristica. La visione che il regista di NASHVILLE ha del mondo che ci circonda è solo apparentemente pessimistica: anche nei momenti delle sue previsioni più nere, come qui o in TRE DONNE, prevale un atto di fiducia nello spirito umano. Se Paul Newman abbandona la città morente alla fine, per avventurarsi sulla banchisa, verso il Nord terribile, non è per suicidarsi. A chi glielo rimprovera egli risponde: "Morirò di freddo? Lei ne è sicuro, ma non io". È, ovviamente un atto di fiducia nel libero arbitrio; e di rivolta contro la predestinazione. Da una dimensione estetica e da un tema come questo Altman avrebbe dovuto trarre un capolavoro, visto i precedenti. Ne è nato invece un film insolito, intelligente, con alcune pagine di grande calore (Newman che trasporta il corpo della giovane al fiume, verso quell'acqua che scorre, unico elemento di vita fra i cani che si nutrono delle carogne umane. O, ancora, l'incontro fra Newman e Bibi Andersson, fatto di primissimi piani, avvinghiati alla vita che scompare, sensibilissimi) ma nel quale le intenzioni evidentissime si traducono con grande difficoltà in emozioni, in bellezza, in poesia.

Alcune cose del film, avvenimento insolito nell'opera di uno dei maggiori manipolatori di suoni e di immagini del cinema di oggi, sono addirittura fastidiose. Così, ad esempio, l'uso della musica, invadente, risaputo, inutilmente drammatizzante. O l'impiego dei filtri per sfumare l'immagine ai bordi, trucchetto quasi banale per richiamare il gelo dell'atmosfera ed il favolistico della vicenda. Il resto del film è evidentemente sotto controllo; qualcuno si è persino divertito a sezionare la pellicola, per dimostrare come la regola del cinque, alla quale Altman si sarebbe adeguato, garantirebbe l'eleganza e la legittimità strutturale di QUINTET. Sono giochetti ai quali il regista stesso, probabilmente, si rifiuterebbe. Diciamo invece che il gioco ad incastri (quello meraviglioso di IMAGES, per intenderci) questa volta non è in massima parte riuscito. Se il film è logicamente inserito nella progressione della carriera di Altman, le sue immagini traducono pesantemente le intenzioni intellettuali dell'autore. La rimessa in questione costante dei valori, che è la prerogativa principale del suo cinema è qui enunciata spesso pesantemente, senza quell'humour, quella grazia leggera, quell'art'e di cogliere il particolare significativo degli oggetti che regna solitamente nei suoi film. Ovvia conseguenza, anche le recitazioni dei grossi nomi del cast non può non risentirne. Newman, ogni tanto, non sa che pesci pigliare; Gassman, Rey e la Andersson ripetono se stessi.

Altman gira troppo, e troppo spesso? Qualcuno lo dice, altri si limitano ad attendere.


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